Per ipotizzazione intendiamo la capacità del terapista di formulare un’ipotesi fondata sulle informazioni in suo possesso. Con tali ipotesi terapista stabilisce il punto di partenza della propria investigazione effettuata con metodiche atte a verificarne la validità. Qualora l’ipotesi risultasse errata il terapista dovrà formularne rapidamente un’altra, suggeritagli dalle informazioni raccolte durante il lavoro di verifica dell’ipotesi precedente (Boscolo Cecchin Palazzoli Prata 1980).
Questa la base di partenza del nostro viaggio durante il mio intervento nel seminario del 25-26 maggio.
Ho creato sul palco tre diversi setting di psicoterapia: un terapeuta e il suo paziente di psicoterapia individuale; un terapeuta e una coppia (psicoterapia di coppia); due terapeuti e una famiglia, due genitori e due figli (psicoterapia familiare con due terapeuti).
La prima domanda ai terapeuti è stata: cosa è per voi l’ipotizzazione in psicoterapia? Quattro allievi con quattro risposte differenti sono state la conferma che in psicoterapia si debba parlare di “ipotizzazioni”, perché le possibilità di ipotizzazione in psicoterapia seguono le regole dei sistemi complessi e variano con le variabili presenti nel sistema. Un sistema terapeutico è un concerto di variabili che s’incontrano, si incrociano e in qualche maniera rendono molteplici le ipotesi sul sistema esaminato.
Un secondo step seguito alla creazione dei gruppi/sistemi di psicoterapia è stato dare un compito di chiudere gli occhi e concentrarsi sulle tre tipologie di psicoterapia prese in esame: psicoterapia individuale, psicoterapia di coppia e psicoterapia familiare con i due sottogruppi, quello genitoriale e quello filiale.
A questo punto sono partite delle musiche.
La prima
“Tea for Two” un classico del jazz, pianoforte che vibra e melodia che invita a lasciarsi andare (
ascolta su YouTube ).
La seconda
“La Foule” (in inglese: The Crowd,
ascolta su YouTube) di Edith Piaf è una canzone che parla della gioia e dell’estasi di essere consumati da una folla potente e travolgente, e di come la folla possa inaspettatamente portarci via qualcuno in un istante. Una bella metafora della vita e di quello che un paziente porta in terapia. La canzone contiene un messaggio di speranza: alcune cose, come la folla, possono dare un’enorme gioia ma anche strapparla via in un istante, eppure si dovrebbe mantenere la speranza che la gioia possa essere trovata in altri modi appunto quello di condividere la perdita con un terapeuta.
La terza
“Don’t Stop Me Now” (ascola su YouTube) è un inno che recentemente è stato premiato come tra le più positive musiche di sempre. Con forte energia incoraggia gli ascoltatori ad andare avanti, ad abbracciare la vita al massimo e a non lasciarsi mai frenare da nessuno. Celebra il sentirsi vivi e lo sviluppare un senso di fiducia in se stessi e di felicità. La canzone è una dichiarazione di libertà, di vivere la vita alle proprie condizioni e di non aver paura di correre rischi. La canzone cattura la gioia di vivere e incoraggia le persone a cogliere le opportunità, a prendere il controllo del proprio destino e a godersi la vita appieno. Quale miglior cura per un paziente in psicoterapia?
La quarta musica
“Murder On the Dancefloor” (ascolta su YouTube) una melodia di energia pura, scena finale del film Saltburn, richiamo alla seduzione, all’incendio della passione, all’abilità di chi balla nel catturare corpo e mente di chi guarda conquistando completamente il partner, “uccidendolo” senza via di scampo.
La metafora di psicoterapia come danza è stata vissuta dagli allievi, che hanno potuto constatare in modo indiretto la difficoltà di entrare in danza terapeutica, lasciarsi andare, sia come pazienti che come terapeuti.
Nei giorni che hanno preceduto questo importante seminario, ho pensato uscendo dalle sedute in studio a delle definizioni di “ipotizzazione”: come in quella seduta fosse stata coniugata l’ipotizzazione. Nello stile di Gianfranco Cecchin e della complessità mi è sembrato opportuno non definire le “ipotizzazioni” ma pormi delle domande che possano far riflettere gli studenti di psicoterapia su questa tecnica o meglio modo di porsi in terapia.
Di seguito riporto le domande (al condizionale perché non vogliono essere verità), che potrebbero essere i fili complessi di un E/E infinito di possibilità: Ipotizzazione potrebbe essere?
• Potrebbe essere una danza?
• Potrebbe essere co-costruzione?
• Potrebbe essere perturbazione?
• Potrebbe essere non credere nelle verità assolute?
• Potrebbe essere curiosità nel senso di dover continuamente cercare nuove domande, per fare emergere nuove mappe e nuove possibilità?
• Potrebbe essere circolarità?
• Potrebbe essere passato, potrebbe essere presente, potrebbe essere futuro?
• Potrebbe essere avere l’idea della complessità e allo stesso tempo il rispetto delle linearità?
• Potrebbe essere incontro tra storie
• Potrebbe essere cercare di non definire e di aprire a nuovi mondi possibili?
• Potrebbe essere creatività?
• Potrebbe essere espressione dello stile del terapeuta?
• Potrebbe essere la storia del terapeuta e dei pazienti dei pregiudizi delle culture?
• Potrebbe essere fluidità che si condensa e potrebbe essere blocco che si scioglie?
• Potrebbe essere un’ipotesi, potrebbe essere un percorso di ipotesi, potrebbe essere il «cogliere gli alberi delle possibilità in una foresta dei vincoli» di H. Von Foerster?
• Potrebbe essere coscienza che si può filtrare per distorcere i dati e per confermare i nostri presupposti terapeutici?
• Potrebbe essere rispetto dei tempi del paziente e allo stesso tempo attenzione alla rapidità che agisce come potente antidoto alla cristallizzazione delle spiegazioni?
• Potrebbe essere rispetto della storia portata dal paziente senza giudizio e con accoglimento?
• Potrebbe essere coscienza che per il paziente alle volte sono le sfumature e gli sfondi ad avere molto più significato di quello che noi pensiamo di trasmettere e quindi ai alcune nostre ipotesi?
• Potrebbe essere avere una buona capacità di tolleranza dell’incerto e del caos più che una ricerca di stabilità
• Potrebbe essere avere piena coscienza che siamo persone uniche che incontriamo persone e sistemi unici e per questo motivo standardizzare potrebbe essere il fallimento più grande di una relazione terapeutica
• Potrebbe essere un modo di ri-raccontare storie in maniera positiva, consapevoli che il linguaggio crea realtà e che portare il paziente da una storia che vincola e blocca a una continua ridefinizione della stessa attiva un circolo virtuoso che potremmo chiamare emergere di mappe alternative nascoste ma allo stesso interconnesse a quanto dal paziente vissuto?
• Potrebbe essere un esercizio di accoglimento della storia portata, nel rispetto della funzionalità della stessa e delle idee (percezioni) che mentre emergono si stanno già modificando?
• Potrebbe essere sapere che il passato e ricostruzione, il che significa che non è mai avvenuto nel modo in cui è ricordato?
• Potrebbe essere sapere che talvolta le ipotesi più lontane che si costruiscono in seduta, possono nel proprio essere assurde e perturbative diventare nuove strade, forze di rottura dei vicoli ciechi di sistemi patologici?
• Potrebbe essere consapevolezza che l’ossessione per la coerenza teorica, l’accuratezza, la precisione e la logica sono sterili e poco utili da un punto di vista pratico?
• Potrebbe essere…
e qui mi aspetto vostre idee alla mia Email info@psises.it
Quando si parla di Gianfranco Cecchin non si può prescindere di pensare alla “Buona Storia”. Il percorso che porta in maniera circolare dalle ipotizzazioni alle buone storie potrebbe essere questo:
…Qualcosa che conservi plausibilità, che sia sensato in sé, ma che sia anche memorabile, che incarni sia esperienza passata che le aspettative del cliente, qualcosa che faccia risuonare insieme le persone, qualcosa che, pur essendo costruito retrospettivamente, possa anche essere usato in prospettiva, qualcosa che riesca a cogliere le emozioni e anche il pensiero, qualcosa che permetta all’immaginazione di arricchire le nostre vite, qualcosa che sia emozionante da costruire. In breve, quello che è necessario nella terapia è una buona storia
Una buona storia tiene insieme elementi disparati abbastanza a lungo da costituire uno strumento per attribuire un significato retrospettivo a quello che è successo, per essere stimolo e guida per l’azione futura e per sedurre il mondo intorno a sé perché accetti e assecondi la storia stessa. Le storie sono architravi. Sono i prodotti di sforzi antecedenti per creare senso.
Concludo con alcune idee che mi hanno attraversato durante la costruzione del mio intervento:
In un mondo ambiguo postmoderno … l’ossessione per la coerenza teorica, l’accuratezza, la precisione e la logica appare sterile e poco utile dal punto di vista pratico.
Nell’agire terapeutico ci vuole “Irriverenza” intesa come capacità di tradire idee e convinzioni a cui si è molto legati, riconoscendole come pregiudizio, magari molto diffusi, molto razionali, molto logici.
Cecchin dice: … ci sono molto più utili i miti, le metafore, i luoghi comuni, l’ironia, le fiabe, le epopee e i paradigmi…
Potrebbe essere che Cecchin, nella sfida alle «Idee Perfette», con la sua curiosità e con una buona dose di irriverenza, avrebbe apprezzato la storia della ipotizzazione per come l’abbiamo co-costruita oggi?